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DERIVA 02

DERIVA 02

Ikea… Osmanoro… un mostro giallo e blu nel normale cielo grigio di una giornata invernale pr-natalizia fiorentina. il grigio mi ha sempre dato l’odea di essere contagioso soprattutto nell’umore… ore 10.15… appuntamento per la seconda esplorazione.
“Tutti i bambini sono inviati a entrare all’interno dl negozio per colorare la casetta di marzapane”… dice la voce dell’altoparlante, la sforzata allegria di un’addetta dell’Ikea…
Ho anche inserito la cassetta nella mia videocamerina digitale e mi sono avviato verso l’uscita.
Pur non avendo filmato nullasono stato seguito da un allarmatissimo sorvegliante che mi ha chiesto se per caso avevo filmato dentro. Gli ho risposo piuttosto decisamente di no e me ne sono andato. Mi avesse chesto se avevo piazzato una bomba nel settore cucina non avrebbe avuto un’aria più allarmata.
Naturalmente, visto che minacciare il capitale multinazionale con la mia pericolosissima videocamera è il mio hobby preferito, appena uscito dal perimetro dell’Ikea, sul bordo del marciapede, mi sono messo a inquadrare il distretto gialloblu globalscandinavo. Dopo poco è arrivato spedito un altro sorvegiante che mi ha mostrato tanto di distintivo, mi ha detto che non era possibile filmare l’Ikea. Io gli ho tenuto la videocamera accesa puntata addosso e gli ho fato presente che ro in mezzo a una strada pubblica, e non c’era nessuna base logica per cui l’Ikea potesse impedirmi di catturarne l’mmagine da fuori.
Il passaggio è in mezzo a capannoni industriali/abitati-abitabili, una comunità che ci guarda passare… siamo un po’ alieni, me ne rendo conto. Come si può on essere curiosi di fronte a sei persone con sei occhi meccanici o elettronici che cercano e osservano attorno?
Appena dietro l’angolo, un mondo cinese inscatolato nei capannoni dell’Osmannoro.
Chissa? Forse faranno delle gite organizzate di nipponici anche all’Osmannoro oltre che al duomo. A cosa faranno le foto?
I piedi battono una strada passata principalmente da macchine… uno spazio morto… un luogo di attraversamento ad alta velocità… qui sono i segni umani a incuriosire. Il contesto è di industria, automobili in movimento, aspettare l’autobus… qui si passa, qui ci si muove… dificile immaginarsi degli uffici (che in realtà esistono).
Penso a quanti luoghi morti dedicati solo al passaggio esistono in questa città… Quale il senso di questi luoghi… Quale il fascino… Abbiamo poca voglia e pochi motivi per fermarci lì… ci moviamo… Anche noi attraversiamo questo spazio… Beh, con una velocità a me poco familiare, quella dei piedi in città…
Ci inoltriamo in una strada sterrata perpendicolare piena di pozzanghere, contornata da preservativi spiaggiati che sembrano un po’ delle meduse, improbabili fioriere ornate di catarifrangenti… tracce di vita di ogni tipo inattese tra i capannoni della periferia produtiva.
Passiamo un sottopasso della ferrovia e jp mi indica qualcosa. Sul muro una tag ‘PATTEX 003’, writer della prima ora del sottobosco cittadino, che sta lì probabilmente dalla prima metà degli anni ’90. Più in là residui di una fotocopia, tipico stile PATTEX. Siamo su derive già tracciate da altri psiconauti urbani…
Passiamo davanti ad un grosso cantiere, poi sotto un cavalcavia pieno di scritte e infine sopra un ponticino non più largo di due metri che collega l’Osmannoro a Brozzi.
Gli aerei ci passano sopra. Alla nostra destra piccoli orti, nani chiusi nei giardini di piccole abitazioni e capannoni grigi non ben identificati. ci stiamo rilassando. Avanti.
‘Guarda questo capannone sarebbe perfetto per fare una festa…’
E’ vero… Siamo in mezzo al niente, in una strada stretta, un passaggio che non è trafficato se non da chi lo conosce.
Sembra di essere in un paese… pochi metri e ci troviamo al CR Libertà, dove prendiamo un caffè tra gli avventori locali che osservano stupiti il nostro strano commando.
… la villetta, il cane, il giardino, sky, la domenica al centro commerciale, la domenica sportiva, il fuoristrada.
Il fango ci impedisce di camminare. Mi addentro nel cantiere per fare foto ai blocchi di cemento, sembra deserto, mi viene in mente il video di Aphex Twin.
… siamo alla periferia di Firenze, città che tutti definiscono ‘bellissima’. Qaundo rispondi alla banale domanda: ‘Di dove sei?’… Bellissima!!… Vaglielo a dire a loro, quanto è bellissima firenze…
Osmannoro-Brozzi-Piagge, tre mondi, davvero tre mondi divisi da una strada…
è periferia, lo so…
appena arrivati sulla sponda del fiume sentiamo l’eco di una canzone commerciale provenire distorta dall’altra parte: è il campo rom. C’è, ma non si vede.
Non lo sapevo. C’ero sempre e solo passato sopra, con la macchina.
Non riesco ad immaginarmi come una cosa così massiccia ad oscillare.. eppure oscilla.
Dobbiamo passarci in mezzo, mi prende un pò male. Prendo il cane al guinzaglio, mi avvicino agli altri, metto via la macchina fotografica e mi metto le mani in tasca. Noto che anche gli altri fanno lo stesso. sarò stato io a generare la paranoia? Qualcuno più deciso lascia acceso lo strumento e assume un aria vaga ma serena. non riuscivo a trovare una collocazione a quel gruppo in quel contesto. Il campo rimane sulla sinistra. Lamiere arruginite, panni stesi, vecchie roulotte. Percorriamo una strada asfaltata che mi ricorda la via di un mercato. Da entrambe le parti della strada ci sono persone che ci osservano e si occhieggiano. Il concetto di alienità assume proporzioni massicce nella mia testa. Mai stato così concreto. Troviamo la fonte della musica che sentivamo dall’altra parte. Un macchina con il bagagliaio aperto che nasconde dei diffusori acustici. Ad un primo acchito mi sembrano artigianali. la mia attenzione viene risucchiata da un rom intento a far rombare il motore della sua Delta. Non si capisce come quella macchina si presta così bene a questo tipo di affermazioni.
Misteri dell’industria automobilistica. Il tipo fa un paio di vasche nella ‘via’ che stiamo percorrendo, sempre con il motore rombante si mette a sgommare.
La sensazione che mi ha lasciato dentro si è protratta e amplificata per una mezz’ora e mi ha abbandonato solo quando siamo arrivati davanti alla Greve. Non era mezz’ora, ma 10 minuti.. vallo a chiedere a Bergson.
Mi sento bene… la musica etnica che abbiamo sentito prima del ponte mi ha messo di buon umore… Low ‘fedele alla linea’ non si ferma davanti all’entrata del campo, rimango stupita… non può volere entrare veramente… ‘io non ci voglio passare in mezzo al campo’… ‘che vuoi che succeda’. Lo so che fa finta di niente ma è innervosito pure lui… entrambi abbiamo gli strumenti nascosti.. penso che se ci togliessero tutto farebbero bene… alla fine stiamo invadendo un luogo loro… questa per me è una barriera, altro che cancello!… testa alta, cerco di ostentare sicurezza.. provo ad osservare facendo finta di non farlo… con l’idea di registrare più cose possibili. siamo in mezzo al campo clandestino Masini. Stiamo passando in una stradina sterrata ai cui lati varie persone ci guardano immobili, braccia conserte… due macchine davanti a noi sgommano, l’una davanti all’altra… una signora sulla cinquantina con biondi capelli tinti sorride con denti d’oro. Mi sento di troppo, fuori luogo… non so niente di questa gente, della loro storia.
Gli sto passando in mezzo per seguire una fottuta linea e le mie categorie di paura si scombinano… riesco persino a sorridere quando vedo l’origine della musica. quando siamo quasi alla fine del campo arriva il pulmino giallo della scuola, scendono tre bambini… una bimba vedendo il cane Nepo urla ‘ho paura dei cani!’ ma poi scoppia a ridere.
… mai, credo, anche se fossi stata a Firenze per i prossimi quaranta anni avrei attraversato da sola una situazione così… avanti…
Mentre gli altri si attardano a fotografare mi spingo un poco avanti e mi vado a sedere in un blocco di cemento. Per ricongiungerci alla nostra linea dobbiamo passare la strada che costeggia l’Arno, lungo la quale è sorto il camp Masini. Il più disperato degli accampamenti rom di Firenze. Appariremo come una banda di alieni. Mi pongo il problema di filmare o meno, o se farlo di nascosto.
L’attraversamento è qualcosa di emotivamente intenso.. alcune centinaia di metri fra roulottes e bagni chimici, passando fra sparuti gruppetti di persone che si fermano a guardarci in silenzio… un magnaccione ornato di anelli d’oro ci sgomma affianco… un tipo cool…
Due tubi enormi… ‘Che cos’è?’… ‘Gas!’ Risponde qualcuno in maniera decisa… il Marians spegne la sigaretta.
Pensando di trovare un varco, dopo una rapida perlustrazione dei confini, decidiamo di imboccare il vialone alberato che stà davanti a noi. Poi la paranoia ci assale. Se ci trovano?… mi chiedo perchè stò facendo questo gioco e perchè non sono a casa a fare qualunque altra cosa…
Siamo nell’acquedotto di Mantignano… Ah certo… figurati! Alla fine l’acquedotto che vuoi che sia!.. penso sia meglio muoversi da qui.
C’è un cancello e decidiamo di scavalcare. Il cane Nepo ce lo siamo passati da sopra.
Il classico bar all’estremità di tutto, tangente a qualsiasi periferia, conduzione familiare… uno assomiglia ad Umberto Smaila.
Mantignano è il luogo della madonne. Ho trovato perfino un citofono con rifiniture in radica. Mantignano, in and out.
‘IN’:
-la schiacciatina ripiena di salsiccia e stracchino.
-Umberto Smaila
-il proprietario del bar che ha dato la pasta e l’acqua a Nepo.
-Il citofono in radica.
-Le strade strette.
-il proprietario del pappagallo
-Le pecore
‘OUT’:
-Il pappagallo bastardo che mi ha morso un dito
-Le Madonne che si i sinuano ovunque.
-L’aria della sera che avrebbe fatto diventare malinconico pure Marx.
-Le vecchine rincoglionite che non ci sapevano dare informazioni.
-La strada scomparsa.
All’orizzonte vediamo il carcere.
Qualcuno ipotizza una protesta, altri un semplice saluto a dei conoscentiin visita sotto il carcere.
Sulla carta sono segnati due passaggi. Qualcuno si accorge che abbiamo preso la strada sbaglata.
Il sole è basso all’orizzonte. Dopo circa due km avvistiamo un simpatico cartello che ci avvisa che la strada è chiusa.
Sollicciano è lì davanti a noi, ma noi non possiamo arrivare. Non resta che tornare indietro e ritentare la via precedentemente abbandonata.
Non si vede più un cazzo. I rullini e le schede delle macchine sono pieni.
Stiamo in silenzio, qualcuno prova a tirar su il morale della truppa. Alle cinque riusciamo ad arrivare al carcere e andiamo a prendere il bus che ci riporta verso casa.

Posted in deriva psicogeografica.

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