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Camminare

La pratica sovversiva del camminare e la riproduzione delle conoscenze

Testo scritto in occasione di un convegno interdottorale a Firenze, dove abbiamo coordinato un worshop in forma di deriva urbana.

Lorenzo Tripodi, Iacopo Zetti.


Camminare ha sviluppato un potenziale sovversivo per lo meno da quando esiste una condizione della modernità. Molti di quelli che hanno saputo con più acume e vigore indagare tale concetto hanno deliberatamente praticato il camminare, wanderung, come forma di conoscenza, di critica, di trasgressione. Charles Baudelaire, Walter Benjamin, i dadaisti, i situazionisti… Dalla figura dello straniero nella folla, del flaneur, alla pratica della deambulazione dadaista e alle derive situazioniste, camminare fuori dai ranghi, muoversi fuori dalle linee e dai tempi imposti dalla funzionalità produttiva, è stato il modo di conquistare il distacco necessario alla comprensione della società capitalista. Via via rigorosa o emozionale, ironica o virulenta, implicita o dichiarata, la critica della società corrente si è espressa (anche) attraverso l’apparentemente innocuo atto dell’errare. Errare come muoversi senza scopo predeterminato o meta fissa, ma anche come sbagliare, rifiutare le regole codificate, scegliere la cattiva strada.

Errano i nomadi, abitando i territori di transito dove si può solo passare, che siano zingari o new age travellers, errano (nel sogno) le città radicali degli Archigram, errano sempre più spesso gli artisti alla ricerca di pratiche di espressione che non siano catturabili, inscatolabili nell’oggetto mercificato  o nel contenitore istituzionalizzato.

 

Modernità ha significato l’organizzazione funzionale, industrializzata, pianificata secondo l’imperativo produttivo della società, e dello spazio sociale. Interazione, movimento, scambio, diventano sottomessi alla costruzione di una economia, alla produzione di valore. Il percorso diventa ottimizzato, standardizzato, previsto e programmato. La mobilità diventa scienza economica, e uscire dagli schemi, dai percorsi tracciati, dai tabulati, è esplicitamente improduttivo e acquisisce un valore implicitamente sovversivo. Assistiamo, nel corso del tempo, alla progressiva regolamentazione e restrizione delle attività consentite in uno spazio pubblico che tende sempre più ad essere concepito come infrastruttura, spazio di scorrimento regolato, purgato del suo originario valore di spazio sociale, luogo di contatto e di formazione politica. Il sostare, deviare, bighellonare nella città contemporanea è stigmatizzato quando non criminalizzato, ed è cagione di sempre più perversi regolamenti locali e dispositivi masochistici come panchine anti-sosta, cancelli e spunzoni,  e sempre più intensamente sorvegliato da videocamere, guardie e ronde (il cui bighellonare è invece legittimato nell’organizzazione produttiva).

Prendersi il tempo e la libertà di attraversare secondo altri codici ed altri istinti la città è uno dei pochi strumenti rimasti per sfuggire all’inclusione produttiva forzata, all’abuso dei nostri corpi come vettori di economia, alla commodification di ogni aspetto della interazione sociale, alla mercificazione, parola fuori moda ma non fuor di luogo. La deriva, la transurbanza secondo il conio degli Stalker, è ancora uno strumento forte, sorprendente. A chi  sa lasciarsi andare all’errare, la città contemporanea è ancora passibile di scoperta e di sorpresa. La visione particolare ed immediata di ciò che sfugge al panotticismo della società dell’immagine, è rivelatoria e destabilizzante poiché sincera. Il contatto del piede col terreno, lo sguardo all’altezza d’uomo, la velocità di trasferimento del passo lasciano fluire il respiro, il ritmo della città, mettono a nudo il rimosso, il sospeso al margine, rivelano l’incessante forza trasformativa del quotidiano.  L’azione del vissuto ha una consistenza che emerge immediata a chi sa lasciarsi andare fuori dai tracciati imposti.

La mappa zenitale dei cartografi e degli urbanisti è una rappresentazione della città che ha storia e scopi ben definiti. La visione militare e geo-politica che riporta non può essere l’unico punto di osservazione della realtà. Nel rinascimento Leon Battista Alberti ideò la tecnica della triangolazione per costruire rappresentazioni cartografiche “misurate” e da quel momento in poi l’occhio del cartografo è stato considerato obbiettivo, preciso, fedele.  Le mappe degli urbanisti, espressione di un linguaggio tecnico, si auto-legittimano come mappe capaci di rappresentare la realtà proprio in virtù di tale linguaggio. Accessibile solo ad una comunità limitata, ad una élite, e per questo percepita come giusta a prescindere dai contenuti. La cartografia ufficiale esiste in Europa da secoli e la sua visione monocentrica è ormai acquisita, ma forse possiamo chiederci se esiste oggi la possibilità di una mappa della città aperta e plurale. Si può mappare e prima ancora esplorare, la città a partire da punti di vista plurimi? Si può conoscere il territorio lasciandosi andare alla deriva?

Il termine deriva, dérive in francese, viene adottato inizialmente all’interno del gruppo dell’Internazionale lettrista. Il primo ad usarlo è Ivan Chtcheglov nel 1953, ma chi ne codifica il significato è Guy Debord in Introduction à une critique de la géographie urbaine e in Théorie de la dérive. Per i lettristi prima, ed i situazionisti poi, la deriva è innanzitutto una forma di arte collettiva, capace di costruire forme di vita antagoniste. La deriva è però anche uno strumento di analisi geografica in cui più persone condividono le loro impressioni sulla città per arrivare a conclusioni oggettive.

Ciò che è stato proposto nel workshop è di utilizzare la deriva come strumento (scusa) di indagine, non tanto con lo scopo di costruire letture che pretendono di essere complete bensì una descrizione dal basso, contrapposta all’immagine oleografica di Firenze come perla del rinascimento. La tecnica non è cambiata molto dai tempi dei lettristi: un percorso determinato, un gruppo unito, un tempo limitato, un corpo a corpo con la città che aiuta a descriverla, secondo punti di vista plurali, non univoci, non predeterminati, non oggettivi.

 

Siamo felici che un convegno di ricercatori abbia scelto tale forma conviviale di svolgersi, aprendosi all’ascolto e all’attraversamento come pratica fondante dell’urbanistica. In un certo senso ci pare che ciò che abbiamo detto della città moderna, della sua irreggimentazione ai dettami della produttività, la sua parcellizzazione funzionale, l’alienazione e la disgregazione sociale che essa produce, possa essere ugualmente applicato all’università di oggi, e l’intero progetto formativo. Nello smarrimento che oggi coglie, crediamo, molti degli studenti, dei ricercatori, dei lavoratori cognitivi, nel sentirsi inquadrati in un sistema profondamente utilitaristico quanto autoreferenziale, frammentato e non sinergico, protezionista e non collaborativo, ci siamo ritrovati con entusiasmo ad attraversare e perderci, con pienezza di sensi e di curiosità,  nella periferia di Firenze: non come pratica fine a se stessa, puramente estetica, ma come base di partenza per innescare una riflessione, come forma di confronto tra persone e luoghi, come ricerca di nuovi terreni su cui ricostruire un discorso condiviso, forse un percorso comune.